Amato

Conferenza tenuta il 25 giugno 1910, pubblicata su «La critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce» VIII, (1910) pp. 263 ss. e 339 ss. (La filosofia in Italia dopo il 1850, III - I positivisti, X - Intermezzo: Simone Corleo)

 


I

Prima di venire alla conchiusione di questo qualsiasi disegno storico del positivismo italiano nella seconda metà del secolo XIX, e di studiarne gli ultimi rappresentanti, in cui esso s’è quasi corrotto, ed è morto, apro una parentesi per ricordare l'unico filosofo che in questo periodo ebbe la cultura siciliana; un filosofo rimasto sempre, quasi albero piantato nel campo in cui ha le radici, chiuso col suo pensiero nello stesso àmbito della cultura isolana, non ancora fusa nella vita nazionale dello spirito italiano. Tutta la vita Simone Corleo (n. a Salemi il 2 settembre 1823, morto il I° marzo 1891 professore di Filosofia morale nell'Università di Palermo) desiderò ed attese un adeguato riconoscimento dell'originalità, del valore dei suo pensiero: ripetendo sempre (e non aveva torto) che nessuno aveva letto tutta un'opera sua, o almeno nessuno inteso, nel loro complesso, le sue dottrine. E ricostruendo nel 1879 in una forma più agevole e piana il sistema della sua filosofia, da vent'anni già esposto in due grossi e fitti volumi di più che mille e dugento pagine complessive, annunziava intanto il proposito «di richiamarvi meglio l'attenzione de più valorosi intelletti con preparare a suo tempo, sull'asse suo, alcuno di quei mezzi che sogliono incoraggiare agli studii più difficili e meno retribuiti»1. Proposito, che infatti mantenne nel suo testamento, istituendo un assai cospicuo premio per gli studi intorno alla sua filosofia, a fine di promuovere artificialmente quell’interesse, che non era mai sorto naturalmente2. Non era sorto, perché non poteva sorgere; non per quella generale cagione, onde il Corleo procurava da se stesso di consolarsi: che cioè «nelle scienze filosofiche, ciò che comunemente o almen da molti si loda, corrisponde al volgare modo di pensare, o per lo meno al pensare dei proseliti di una scuola venuta in moda»: cagione che è vera, solo per metà, giacché essa moda si crea appunto, non da ciò che comunemente è lodato, ma dal vigore possente d’ogni nuova concezione originale; non poteva sorgere, perché la filosofia del Corleo s’era formata in un ambiente di pensiero estraneo alle grandi correnti contemporanee; in quell’ambiente chiuso, quale rimase sempre la cultura siciliana fino al 1848 (quando qui si sorse per la prima volta l’idea della unità italiana): chiuso anche al soffio turbinoso e ricreatore della grande Rivoluzione; chiuso quindi e in ritardo verso il rinnovamento spirituale della penisola nella prima metà dell’800. Ambiente, che sarà studiato in altra serie d’articoli, ma che si può facilmente riconoscerne e quasi sentire in quel che d’esotico, che a chi non abbia familiarità con gli studi filosofici siciliani d’innanzi al 1860 desta un così vivo senso di strano, e stavo per dire di repellente, nelle opere, nelle opere di Simone Corleo, specialmente nelle prime. Esotica la lingua, con tutta la forma letteraria, diversa da quella degli scrittori italiani del continente contemporanei, non pure nei costrutti non sempre conformi alle norme più generalmente seguite, ma nella stessa materia della lingua e nella frase, tra barbara e preziosa, e nell’atteggiamento stilistico d’un classicismo di scuola, in cui l’abbondanza ciceroniana e cinquecentesca s’alterna e si mescola alla magrezza stringata di Tacito e dell’Alfieri3. Esotico tutto l’atteggiamento storico; per cui la storia si trasfigura in funzione della cultura speciale palermitana, secondo interessi intellettuali e tradizioni paesane. Esotica la posizione dei problemi, derivanti da una storia siciliana della filosofia; e la stessa situazione mentale rispetto alla realtà, verso la quale il pensiero contemporaneo è orientato: situazione, ancora all’albeggiare del '6o, da abati del sec. XVIII, per cui la filosofia era la fisica e la matematica - i dommi cristiani; e la storia, l'uomo, non era. Se la Sicilia fosse rimasta la Sicilia, Simone Corleo, quando nel 1860 e 63 diè in luce la sua Filosofia universale, che doveva cacciar di nido il Sistema di scienza universale, pubblicato nel 1850 dal monrealese p. Benedetto d'Acquisto (1790-1867; predecessore del Corleo nella cattedra dell'università palermitana), che alle tradizioni d'una scuola locale aveva congiunto alcune novità giobertìane4, egli avrebbe certo raccolto tutto il plauso de' suoi connazionali; com'ebbe sempre a Palermo una cerchia di scolari devoti e di entusiasti ammiratori, che non lasciano tuttavia spegnere l'eco della sua voce. Ma già allora la Sicilia cominciava a diventare l'Italia; l'Italia tutta impregnata dello spirito nuovo del romanticismo, integratore e correttore dello spirito della Rivoluzione; l'Italia, che, ripigliando il suo posto tra le nazioni d'Europa, si affrettava per rimettersi anche al passo con i progressi universali della cultura. E in questa Italia, che fin d'allora assunse nel circolo della sua vita nuova la Sicilia, il Corleo, che nel 1860 si presentava con un'opera già da diciotto anni meditata e promessa5, parlò come vox clamans in deserto. Nessuno l'ascoltò, nessuno6 gli rispose. Fu, come si dice, uno spostato.

E se ora levasse il capo e vedesse questo saggio, non dubiterebbe, certo, un solo istante dell'opportunità di essere studiato quasi a parte e in un intermezzo alla storia della filosofia contemporanea: ma non meno certamente si riterrebbe spostato in un intermezzo alla rassegna dei positivisti. Poiché positivista egli non credette mai di essere, quando venne in auge In Italia il positivismo, e gli parve di dover farei conti con esso7. Il positivismo - quello almeno dei positivisti, poiché un positivismo a modo proprio non c'è chi non lo voglia - egli lo combatté in tutte le sue affermazioni più caratteristiche. E nessuno, che io sappia, ha creduto finora di poterlo raccostare a' positivisti. Egli, contro i positivisti, professò di essere metafisico; e affermò l'eterogeneità e l'autonomia dello spirito; e la finitezza del mondo; e Dio; e la creazione: tutta la sostanza della metafisica cristiana, che i positivisti rimandavano ai musei preistorici; e contro i positivisti difese sempre i diritti della filosofia come scienza diversa dalle scienze particolari, e legislatrice per tutte.

Ma la filosofia d'un filosofo, si sa, non è quella stessa per l'appunto, che vuol costruire esso il filosofo: ma soltanto quella che il pensiero fondamentale, l’ispirazione prima del suo filosofare gli lascia e quasi gli fa costruire. Non basta che il filosofo sia di fatto, cioè voglia essere, meccanista e finalista, materialista e spiritualista, perché gli si riconosca in linea di diritto che egli è una cosa e l’altra, poiché l'una cosa esclude l'altra; e lo storico della filosofia deve distinguere trai due principii repugnantì quello che è veramente originario, e solo può dirsi perciò il vero principio del filosofo. Che se, oltre il principio da cui egli prende le mosse, sente pure il bisogno e la forza d'un principio opposto, questa duplicità d'interesse, questo antagonismo interiore è allo storico dimostrazione prammatica dell'insufficienza logica e storica del principio fondamentale. Che è il caso del Corleo; positivista in tempo di positivisti ma con tutto un bagaglio addosso di vecchia metafisica, che gli impediva d'entrare nel gran carrozzone, su cui quei signori si caricavano e viaggiavano beati: ma il suo bagaglio, se accenna a certa ingenuità da spostato, se non gli procurò fortuna tra i positivisti, se non gliela fece né anche cercare in quel campo, se gli dié una particolare fisonomia storica, non significa a chi guardi alla logica interna del suo pensiero se non il difetto e quasi il fallimento del suo stesso positivismo. Onde l'intermezzo siculo assume l'importanza d'una critica ab intrinseco del positivismo italiano, dovuta a un filosofo che per altre vie, per altri porti giungeva a cotesta filosofia largamente diffusa nel tempo suo.

 

  1. al. vol. Il sistema della filos. Universale, ovvero la filos. della identità, Roma, 1879, p. 6.
  2. Malgrado l’insistenza, onde egli tentò sempre attirare suoi libri l’attenzione dei più illustri scrittori del tempo, e provocarli a pubblica discussione. Vedi le lettere raccolte nell’Appendice a questo saggio.
  3. Chi voglia rendersi conto dell’educazione letteraria del Corleo, deve leggere il suo volume Tragedie seguite da discorsi politici e letterarii, 2aed, Palermo, 1869: contenente quattro tragedie (Vespro siciliano, Eufemio, Silano, Tiberio Gracco) e due discorsi: Sui Gracchi, sul Comunismo e sul limite massimo della proprietà; e Sulla tragedia italiana.
  4. Sul D’Acquisto, dal 1844 al ’58 professore nella Università di Palermo, poi arcivescovo di Monreale, v. Di Giovanni, B. D’A. e la filos. della creaz. in Sicilia, Firenze, 1867, e St. d. filos. in Sicilia, Palermo, 1873, II, 213-289.
  5. univ., vol. I. Intr.
  6. Nessuno, s’intende, che mostrasse di consentire. Della Filosofia universale si occuparono Luigi Ferri, Ital. Ed Effem. Della P.I., Torino, 2 dicembre 1861, n. 63; A. Conti, ivi, 15 settembre 1862, n. 104; B. Poli, ivi, 7 aprile 1862, n. 81; G.Allievo, ivi, 13 febbraio 1865, n. 229 (scritto rist. nei Saggi filosofici, Milano, 1866, pp. 324-334); F. Bonatelli, Riv. cit., 24 aprile, n. 187, e nell’art. Die Philos. in Italien seit 1815 nella Zeitscr. f. Philos. u. philos. Krit. N. F., Bd LIV N. F., (1869), pp. 134-58; A. Franchi, Teorica Del giudizio, 1870, lett. XI; F. Fiorentino, La filos. contemp., p.60. Nella rivista La filosofia, rassegna siciliana che il Corleo fondò nel 1890, ma di cui non riuscì a pubblicare più di due fascicoli, nell’anno II (dopo il quale cessò) dir. da R. Benzoni, contiene vari scritti commemorativi intorno al Corleo nei cenni necrologici e biografici. Il Benzoni vi studia il Car. Della filos. di S. C.; il medico A. Marcacci, Le opere medico-fisiche di S.C. ed il suo sist. di filos. univ.; E. Orestano, L’identità in Bain e in Corleo. Un cenno bio-bibliografico del C. scrisse F. Orestano nella miscellanea di scritti in onore di M. Heinze, Berlin, Mittler u. Sohn, 1906, pp.201-206.
  7. Vedi specialmente il suo scritto Le differenze tra la filos. dell’identità e l’odierno positivismo, nella Riv. Di filos. scient. Del febbraio 1887.

II

E in primo luogo è da notare che Simone Corleo, di fatto, prese le mosse dallo studio di problemi particolari di fisica e di fisiologia. Le sue Ricerche su la vera natura déi creduti fluidi imponderabili erano bensì pubblicate dall'autore ventinovenne come «lavoro destinato a spianar la strada ad altro lavoro assai più esteso e più rilevante, la Filosofia universale... tempo avanti promessa, ma per fatali ostacoli non condotta ancora a compimento»1; ma, anzi che presupporre realmente questa filosofia universale, sono evidentemente la stessa prima forma di essa filosofia, quale sorse nella mente del Corleo nel tentativo di approfondire i concetti empirici di calore, luce ed elettro-magnetismo, combattendo la mitologìa è vecchi fluidi imponderabili: onde si rompeva con una serie di casi eccezionali la legge newtonìana della gravitazione universale, ammettendo corpi assolutamente o relativamente non gravi. Il Corleo si sforza di chiarire come tutti i fenomeni, che si ritenevano effetto di questi presunti fluidi, non importino realmente nulla di estraneo alla meccanica dei corpi ponderabili cui ineriscono, e si risolvono tutti in stati di questi corpi: onde il calorico non sarebbe più un agente che dilata i corpi, ma la stessa dilatazione dei corpi, immanente in tutti i corpi, proveniente dalla continua variazione dello stato di aggregazione delle loro molecole, a causa dello squilibrio e del moto incessante dei varii corpi, contigui tutti, dell'universo. La luce, anch'essa, uno stato degli stessi corpi ponderabili; ossia il particolare stato vibratorio delle stesse molecole di cotestì corpi. E uno stato particolare delle molecole dei corpi ponderabili anche l'elettricìtá, derivante dal loro disequilibrio molecolare. Non occorre qui entrare nella serie delle, osservazioni onde egli confuta la pretesa azione degl'imponderabili, e spiega i fenomeni termici, luminosi ed elettrici con la meccanica dei ponderabili. Giova piuttosto accennare in breve i fondamenti di questa meccanica, che sono l’intuizione generale, che il Corleo ha di tutti i menzionati fenomeni fisici.

La materia, egli dice, consta di elementi indivisibili, perché altrimenti non vi sarebbero corpi più grandi e corpi meno grandi, tutti essendo divisibili all’infinito, ossia tutti egualmente divisibili, in quanto un infinito a sua volta non potrebbe essere maggiore o minore di un altro. Questi elementi non sono atomi inerti, veicolo di movimento, ma atti (monodinamie): «forze esse stesse attuate» che, «riunendosi, produrrebbero un'azione totale, equivalente alla somma totale dei loro numeri e della loro disposizione». Monadi, insomma, come quelle di Leibniz, centri di attività: ma forze attuate, che, a differenza delle monadi leibniziane, son tutte attuate: ossia ciascuna è attuata si da non essere, né per forza propria, ne per forza altrui, suscettibile di altra ulteriore attuazione: scevra d'ogni possibilità di svolgimento: «ognora la stessa determinata invariabile azione». La monade leíbnìzíana è un continuo cangiamento, é l'azione d'un principio interno che passa per appetizione da una percezione all'altra. La monodinamia del Corleo è identità assoluta con sé stessa, negazione d'ogni cangiamento. Che sia l'atto senza cangiamento della monodinamia ora non indaghiamo. Anche il pensiero, che muove essendo immobile, è per Aristotìle un atto. Ma il carattere differenziale che distingue più profondamente la monodinamia dalla monade leibniziana, e da quel reale herbartiano, a cui il principio del filosofo siciliano è stato più volte raccostato, e che giova a significarne più precisamente il valore, è la sua relatività, laddove ogni cangiamento della monade è per Leìbniz interno alla monade stessa, che non ha finestre, per cui qualcosa possa entrarvi o uscirne, e ogni attività del reale si esaurisce per Herbart nell'autoconservazione del reale, che è anch'esso un tutto chiuso ed essenzialmente irrelativo. «L' idea di azione», dice invece il Corleo (e azione è per lui, la stessa entità elementare), «accenna da se stessa la necessità di una relazione ad altri, la necessità di un contatto»; essa «non può avere per limite il pretto nulla» e va quindi concepita «come dentro una sfera di contatti di altre azioni sostanziali, che l'abbracciano e la serrano da ogni dove». L’azione della monade pel Corleo non è a sé, ma ad altro: e la monade non è, come avrebbe detto Herbart, una posizione assoluta, non e sé stessa, ma è sé stessa ed altro, e il suo essere trascende la sua sfera particolare per adeguarsi a tutta la sfera di contatti, al sistema ìnsomma di cui fa parte. Non occorre avvertire che questa monade non è l'atomo, il quale presuppone lo spazio vuoto, che il Corleo rifiuta; ma non occorre neppure avvertire che una monade la quale non è per sé, ma è parte di un sistema, non è più monade, non è più nulla di sostanziale. Ma, benché il Corleo ci parli anche in questa introduzione alle Ricerche sugl’imponderabili di concetti metafisici, è giusto interpetrare le idee che vi propone alla stregua della speculazione pura? A lui importa qui di costruire un sistema fisico, in cui la stessa aggregazione delle parti materiali, secondo una ipotesi unica, renda ragione di tutti i fenomeni fisici, senza bisogno di postular nulla che trascenda lo stesso sistema fisico. Questo bisogno soggettivo di non uscire dal campo empirico si manifesta fin dal principio nella ragione addotta per la negazione della divisibilità infinita della materia (e quindi per la posizione del numero finito degl'indivisibili). Le contrarie supposizioni dei geometri, egli dice, sono ineffettuabili in quanto urtano nella impossibilità di spiegare la differente grandezza dei corpi: che sono differenti perché - è chiaro - sono empiricamente differenti. E l'esperienza qui che costruisce i suoi presupposti, come accade sempre nella costruzione propriamente scientifica; non è un principio a priori che costruisca deduttivamente l'esperienza. Inoltre: la posizione del numero finito degli elementi costitutivi del corpo empirico non si giustifica se non in quanto gli elementi siano della stessa natura del tutto, unità, cioè, della stessa specie di quelle che compongono il tutto. Ma questa identità non è concepibile se non a patto che le unità siano nello stesso piano del tutto, e se questo è oggetto di esperienza, quelle devono essere almeno oggetto dell’esperienza, che Kant dice possibile. Se il corpo è esteso, le unità saranno estese, materiali. Dal punto di vista metafisico, Leibniz aveva chiarito che unità estese, materiali non sono unità, ma molteplicità, aggregati esse stesse di altre unità. Ma le entità supposte, così come le suppone, servivano al Corleo per condurre una polemica analoga a quella già fatta dal Leibniz nell’Hypothesis physica nova dal punto di vista del meccanismo, contro il concetto fisico dei fluidi imponderabili, dell’azione a distanza e di ogni eccezione al sistema del più matematico atomismo. E, obbedendo allo stesso bisogno spirituale, egli scrisse quattro anni più tardi un altro libro di sistemazione empirico-naturalistica: Ricerche su la natura della innervazione con applicazioni fisiologiche, patologiche e terapeutiche2; dove egli (che era medico) combatte l'altra entità scolastica del fluido nervoso, per ridurre l'attività nervosa, anch'essa, a uno stato dell'organismo, e propriamente a lo stato di mutuo disequilibrio delle molecole, che compongono l'organismo animale, raccolto in ispecialità sulla massa encefalica e sui nervi. È anche qui il desiderio di spiegare col puro meccanismo della materia le funzioni fisiologiche del sistema nervoso, che impone, com'è naturale, all'autore il concetto di una realtà materiale composta di un numero determinato di parti indivisibili, ciascuna delle quali non può essere se non se stessa, e la cui varia aggregazione deve render ragione dei fenomeni dell'esperienza. Che è il concetto del più rigoroso meccanismo, il quale risolve tutte le qualità né rapporti meramente quantitativi.

Fin da quando il suo pensiero si travagliava sui problemi particolari, e si sforzava di risolverli con la guida di cotesto concetto meccanistico del reale, egli intanto doveva, dalla posizione assunta di una concezione unitaria del mondo empirico, essere indotto naturalmente ad attribuire un valore metafisico allo schema in cui si veniva adagiando il suo pensiero. E già annunziava la Filosofia universale, pubblicata pochi anni dopo, come la dottrina immanente a quelle sue speciali ricerche. Questo scambio dello schema utile alla costruzione scientifica della natura con una logica dell'essere, ossia con una metafisica, o filosofia che si voglia dire, è non solo frequente nei naturalisti, ma necessario. Perché dal punto di vista naturalistico tutta la realtà é la natura stessa naturalisticamente considerata; e la scienza della realtà, di ogni realtà, quale è per lo spirito, non può essere che una, e assoluta per lo spirito per cui la realtà stessa è. La concezione meccanica, fisica e fisiologica, del Corleo nei Fluidi imponderabili e nel l’Innervazione fu per lui la sola, la vera metafisica del reale; e si accinse a presentarla come tale, di contro a tutte le filosofie antiche e moderne, nella sua Filosofia universale; dove in realtà egli procura di stringere nel suo pensiero non soltanto la realtà del fisico e del fisiologo, ma tutta la realtà, compresa quella additatagli da tante altre filosofie, e dal contenuto della sua fede cristiana.

  1. Ricerche, Palermo, Lo Bianco, 1852; Introd., p. 3. Prima di queste Ricerche nel 1844 il C. pubblicò certe Meditazioni filosofiche, che non mi è riuscito di trovare in nessuna biblioteca, e che non sono mai ricordate, che io abbia visto, dall’autore nelle sue opere posteriori: dove non manca mai di citare i lavori precedenti, in cui avesse enunciate già le stesse idee. Il Di Giovanni nella Bibliografia aggiunta alla sua Storia (II, 580) le cita come vol. I di una collezione di Opere del Corleo, rimasto incompleto, recante il sottotitolo «Filosofia»; e avverte: «Sono pensieri diversi, cui egli da titolo di Meditazioni sopra filosofici argomenti».
  2. Palermo, Lo Bianco, 1857, pp. 571-XXI.

III

Vediamo dunque ì tratti caratteristici di questa filosofia del Corleo, esposta da lui diffusamente nei due volumi già ricordati del 1860-63, nel riassunto fattone nel 1879 col titolo Il sistema della filosofia universale ovvero la filosofia della identità, svolta parzialmente in un corso di Lezioni di filosofia morale1, e schiarita in molti scritti minori2.

Egli muove da un'analisi del pensiero come del primo fatto, o, comunque, uno dei fatti, che la scienza si trova innanzi quando imprende le sue indagini, indipendentemente da ogni valutazione gnoseologica: ed è la prima parte del suo sistema, detta noologia; la quale non presume spiegare, ma intende osservare i carattere distintivi dei fatti del pensiero, così come essi si presentano.

E il primo fatto osservato, o creduto di osservare dal Corleo nei fenomeni del pensiero, è la complessità o composizione dì tutti i suoi atti primordiali o percezioni, esterne, interne, dell'Io, e intuitive o relative ad oggetti di conoscenza immediata. Ogni percezione, che è poi un atto effettivo di pensiero, par chiaro al Corleo che «costa di più parti, sia che le parti si distinguano fra di loro, sia che possano soltanto distinguersi per mezzo di un’analisi o di un avvertimento speciale»3; è un composto o un complesso di varie parti: e il complesso, si badi, «è identico con la somma delle parti, che in lui tratto tratto, e non tutte ad una volta si rivelano»4. Questo il primo fatto, rispetto ai quale il Corleo torna sempre a protestare che egli non fa altro che osservare, senza metterci nulla di suo; e non occorre dire che questo, come qualunque altro fatto osservato, è un fatto veduto con la lente soggettiva del pensiero che l’afferma: ossia, in questo caso, dal punto di vista meccanistico, atomistico, associazionistico, per cui si vede il molteplice del fatto psichico, ma non si vede l'uno, in cui il molteplice si concentra e si attua. E, fatto per fatto, si può affermare che, osservando esattamente, ogni percezione non è somma, ma unità.

Posta, a ogni modo, quest'atomistica spirituale, si può facilmente argomentare che tutto il processo dei fenomeni dello spirito sarà per Corleo quello che sarà peri positivisti come l’Ardigò, e che è stato sempre per tutti gli empiristi antichi e moderni; una mera meccanica psicologica, una formazione naturale, un mero incremento a posteriori dell'esperienza. Il Corleo ci parlerà di un'analisi e di una sintesi spontanea delle percezioni primitive, vera attività miracolosa costruttiva di tutte le forme del pensiero. Le percezioni, egli dice, «s'incontrano fra loro in quelle parti, ove hanno rispettiva somiglianza; e senza che l'uomo vi ponga mente, da se stessi i punti simili si rappresentano consimilmente: onde nasce la loro spontanea assimilazione», ossia una percezione sintetica che basterà a riprodurre essa sola le varie percezioni simili inerenti nei primitivi complessi di percezioni. Viceversa, tutti i punti diversi «si separano naturalmente fra loro e formano tante percezioni, o parti di percezioni, distinte». Sicché la sintesi e l’analisi, che pure il Corteo, quasi per ischerno, dice le «due grandi operazioni del Me» non sono per lui funzioni dell'Io, che rendano possibile; il duplice fatto dell'assimilazione e disassimilazione; «anzi non son'altro che il risultato delle percezioni complesse e della loro riproduttibilità»: parendogli troppo semplice e troppo naturale che «le percezioni, risovvenendosi, anche all'insaputa dell'uomo si sovrappongano, per così dire, le une alle altre, combaciandosi in tutti i punti consimili, e lasciando diversi tutti i punti non somiglianti» (I, 147), E altrove dice tranquillamente: «Tutte queste operazioni d'identificazione delle identiche rappresentazioni, di diversificazione delle diverse, di nuova identificazione dei diversi coi loro novelli identici e d'identificazione dei complessi con la somma delle parti diverse che rispettivamente li costituiscono, ovvero che in essi si manifestano, son tutte operazioni spontanee e primitive… sono il frutto spontaneo delle medesime rappresentazioni identiche e diverse, perché è impossibile che identicamente non si presenti ciò che identicamente si presenta ecc. ecc.» (Sist., § 9). Dov'è evidente l'arte dell'empirista di presupporre quel che deve dedurre: perché qui l’identificazione dovrebbe essere conseguenza dell’identità; e l’identità intanto implica l’identificazione degl'identici, che non sarebbero tali per la coscienza, se già non identificati. Ma lasciamo pure procedere il nostro filosofo; e mandiamogli buona tutta l'associazione, che egli fa derivare dall'analisi e dalla sintesi spontanea, con le operazioni psicologiche della riproduzione delle idee, la ricordanza, la reminiscenza, la dimenticanza e l'oblio. Un, altro passo innanzi, sempre con quella gamba, egli lo fa con la sua teoria dell'astrazione, che dipende sempre dall'analisi e dalla sintesi spontanea, ma scopre un nuovo mondo nel pensiero: il mondo dei concetti. «L'identico, rappresentatosi in gruppi diversi, diviene punto tipico di rappresentazione; o meglio, tutto quello che si presenta come a lui5, si presenta appunto come a lui. E perciò esso è il punto tipico per tutto ciò che lo somiglia, come è il punto differenziale per tutto ciò che non lo somiglia. Dalle frequenti ripetizioni del punto identico in mezzo a gruppi diversi, sorge la isolazione, o l'astrazione dell'identico da tutti quegli altri elementi, coi quali egli si trova unito e che non gli somigliano» (Sist., § 16). Questo astratto, manco a dirlo, è il concetto, il quale, secondo il Corleo, «in forza di questa stessa identità divenuta tipica e fissa, prende caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza. Perocché è necessario che a presentarsi identicamente, ad entrare sotto la categoria del concetto, si presentino gl’identici connotati; in tutti i tempi ed in tutti i luoghi sarà così: ne ci vuol altro che l'identica presentazione, né meno né più, per ottenere questo effetto. Onde i così mirabili caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza non son altro che le indispensabili conseguenze della identità delle rappresentazioni». Cioè, bisogna dire, di quella tale identità, che noi abbiamo introdotto, già nelle rappresentazioni che dovranno essere identificate, tanto per agevolare la futura identificazione; e se l’identico è il concetto, di quella tale identità, che noi abbiamo dovuto mettere nelle rappresentazioni, che per analisi e sintesi spontanea e quasi automatica potessero poi generare il concetto. Perché quelle rappresentazioni noi le investivamo già del concetto, attribuendo loro una qualità, o dicasi pure, vedendole con una qualità, di cui dovevamo pure avere il concetto universale, necessario, assoluto, da quanto quella che l'atto dell'astrazione ne farà saltar fuori.

E qui interviene un'altra teoria che fu il cavallo di battaglia dell'empirismo, dello schietto positivismo corleiano: una teoria, che potrebbe parere una parola, ma una parola che l'Ardigò, se avesse mai letto gli scritti del filosofo siciliano, gli avrebbe dovuto invidiare: una parola tipica e pregnante, in cui c'è tutto l'empirismo: la priorizzazione. «Parola nuova», dice pleno corde l'autore la prima volta che l'adopera, «che debbo usare d'ora innanzi per esprimere un'idea nuova»: ed accingendosi a svelarne il segreto a La priorizzazione dei concetti è una cosa degna di grande studio, ed è di molta importanza»6. Il quale segreto, detto nella forma più semplice e chiara dallo stesso Corleo7, è questo, che «le prime presentazioni, astraendosí per effetto dell'identico e del diverso, prendono il davanti, si priorizzano, divengono tipo e norma di quelle che vengono dopo; poiché è conseguenza ineluttabile del tipo priorizzato, che identicamente si ripeta ed abbia i medesimi caratteri di luì tutto ciò che in quel modo si ripete». Isomma la priorizzazione è la stessa astrazione, in quanto l'astratto o concetto è poi predicato di tutti i complessi rappresentativi o concettuali, che contengano quellidentità astratta tra le loro parti costitutive. E se l'astrazione rileva e mette in luce nel fatto spirituale su, cui si esercita soltanto quello che c'è, la priorizzazione che vuol essere la formazione o genesi dell'apriori, cioè del presunto a priori, c'è pericolo che presupponga appunto l'apriori, che vuoi costruire, e senza di cui l'astrazione, in cui essa pur si risolve, non avrebbe che astrarre. La priorizzazione del Corteo fa il paio, con l'apriori spenceriano che è aposteriori per la specie, ed è apertamente la caratteristica più significativa del suo empirismo.

Non occorre dire che il Corleo rifiuta i giudizii sintetici a priori di Kant; e riduce la funzione giudicativa a un rapporto d'identità, per cui non solo i giudizii a priori, fondati cioè su concetti priorizzati, ma anche i giudizii a posteriori, fondati sulle percezioni empiriche, sono analitici, e non fanno se non mettere in rapporto una parte col tutto.

E il principio d' identità, ormai è chiaro, è per lui la chiave che apre tutte le porte, la legge unica del pensiero, la luce che illumina tutti i misteri. La sua filosofia s'incontra qui, senza nessun rapporto storico, con, la filosofia herbartiana, come superamento della fenomenalità di ogni cangiamento: ma senza questo concetto della fenomenalità, anzi con lo stesso oggettivismo degli antichi atomisti. Per Corleo come per Herbart l'essere non può cangiare; e si deve perciò concepire nella più rigorosa identità. Ma per Herbart il cangiamento è una veduta accidentale, estranea all'essenza propria dei reali; per Corleo invece come per Leucippo e Democrito, se le sostanze elementari sono immutabili, generano peraltro esse stesse, col movimento, tutte le mutazionì. La sua identità non è, come la herbartiana, l'identità degli eleati, che negano il divenire naturale, ma quella appunto degli atomisti che con l’identico moltiplicato costruiscono un reale divenire.

 

  1. Palermo, 1890-91, due volumi di cui il secondo rimasto incompleto.
  2. Da aggiungersi ai citati: I doveri temporanei hanno origine, forza obbligatoria e durata dai doveri assoluti, ovvero alla necessità del progresso in filosofia morale, Palermo, 1863; Il principio d’identità, il giudizio necessario e il giudizio empirico – Il principio stesso d’identità, la sostanza e gli assoluti ontologici: memoria presentata al XII Congresso degli scienziati italiani in Palermo, 1875, negli Atti, Roma, 1879; Le abitudini intellettuali che derivano dal metodo intuitivo, Palermo, 1880; Le comuni origini delle dottrine filosofiche di Miceli, di Malebranche e di Spinoza e loro confronto con quelle di Gioberti e di alcun positivista moderno, in Atti della R. Acc. d. sc. Lett. E belle arti di Palermo, 1884. Dei molti suoi scritti storici, politici e di pubblica istruzione si può vedere l’elenco accurato nel citato scritto di F. Orestano.
  3. univ. I, 137.
  4. Sistema, § 8.
  5. Costrutto siciliano; intendi: Come lui, allo stesso modo di lui.
  6. univ. I 186-187.
  7. Sistema, § 22.

 

 


IV

Con la logica dell’identità, per cui la cosa non può essere che sé stessa, il Corleo costruisce il suo concetto di sostanza; e con questo concetto distrugge la distinzione stessa di realtà e di fenomeno, come quelle di potenza e atto, e di causa ed effetto; e quindi molte questioni, che a torto avrebbero affaticato in ogni tempo la mente dei filosofi.

La sostanza è assoluta attualità e assoluta unità. Perché, se non fosse attuale, e fosse potenza e atto, e passaggio dalla potenza all’atto, essa non sarebbe identica a sé stessa; e se fosse unità insieme e pluralità, unità che si pluralizza, o unita in atto e pluralità in potenza, come uno e più a un tempo violerebbe del pari la legge della identità, e spianterebbe la logica. La sostanza è pertanto invariabile, perché la variazione implica la contraddizione della potenzialità non attuata; la quale poi non si potrebbe attuare per condizioni proprie dello stesso all’ente, perché in tal caso, l’atto coinciderebbe con la potenza, né per condizioni estranee all’ente, perché allora si supporrebbe che un altro ente potesse mutare sé stesso ed altrui, producendo quelle condizioni che prima non erano e facendole inoltre penetrare nella sostanza dell’ente da sé diverso, ove dovrebbero attuarsi le singole potenze1. «L’identico insomma non potrebbe mai trovare né in sé stesso, né in altro, la ragione per dar nascita al diverso, piuttosto ad uno che ad un altro diverso, a questo prima ed all’altro dopo»2.

Fin qui il Corleo non direbbe diversamente dall'Herbart. Ma il Corleo continua empiricamente: «Noi osserviamo le continue variazioni nei complessi; epperò col dividere e suddividere complessi medesimi arriviamo mentalmente alla impossibilità di continuare cotesta divisione all'infinito; poiché allora [l'aveva anche, detto nei Fluidi imponderabili] la parte ed il tutto sarebbero eguali, cioè egualmente divisibili all'infinito, non potendo esistere un infinito maggiore ed un infinito minore. Così ci persuadiamo della esistenza di enti primi, semplici, indecomponibili per difetto di parti, monadi. Or la ragione delle variazioni, invece di legarla ai complessi, in cui le variazioni stesse si osservano, vogliam noi riferirla a ciascuno di quegli enti primi..... da cui risultano i complessi. Questo modo di pensare sarebbe uguale a quello di chi, vedendo tutta la varietà numerica risultante dalla variazione di cento unità per sottrazioni, addizioni o trasposizioni di esse, vorrebbe credere che la ragione di tutte le varietà fosse in ciascuna delle unità semplici, invece di essere nel loro insieme, nella diversa e variabile loro composizione; vorrebbe supporre che in ogni unità esistesse la potenza di mutare sé stessa e le altre; attribuirebbe insomma ciò ch’è necessaria conseguenza del molteplice diverso a ciascuna delle unità individue che lo compongono»3.

Dunque, pel Corleo sono tanto le unità quanto le combinazioni o complessi delle unità, in cui si risolvono le variazioni. Sono o anzi le unità identiche, perché sono (si osservano) le combinazioni variabili. E poiché la combinazione vale come il complesso o somma o collezione delle unità elementari, Sostanze queste, sostanziale anche quella. «L'uno è sempre uno, sempre lo stesso uno, la pluralità è identica alla collezione delle unità, non è una cosa diversa da essa, ne è la produzione di una sola di esse» (§ 86). Non potrebbe essere più evidente il contrasto tra la fenomenalità del cangiamento herbartiano e la sostanzialità della variazione cor1eiana: contrasto, che torna a confermare la diversa posizione, speculativa dei due pensatori, metafisica e veramente speculativa per il tedesco, empirica e naturalistica per l'italiano. Il quale non muove propriamente dalla sostanza, ma dal fenomeno trattato come sostanza. Dal fatto osservato del variare, non saputo spiegare che per combinazione di un determinato numero di unità elementari: secondo le suggestioni che certamente ei dovette ricevere dagli scritti del conterraneo Benedetto D’Acquisto, che già aveva anche lui, «riconosciuto – lo avverte lo stesso Corleo4 la impossibilità della divisione all’infinito della materia, per la impossibilità di esservi (sic) un infinito maggiore ed un infinito minore, mentre per divider sempre bisogna necessariamente questa progressiva diminuizione di parti e di sottoparti»: e spiegava anche lui la natura, creata da Dio, come la combinazione di «primi principii, realtà semplici, indecomponibili fisicamente, invariabili in qualunque stato cui si considerano, sia nello stato di isolamento, sia in quello di composizione e decomposizione»; insegnando già che «ogni combinazione de’ principii, nella quale consiste la natura dell’essere che ne risulta, presenta due manifestazioni, cioè quella di quantità e quella di qualità: la quantità è relativa al numero de’ i principi che si combinano; la qualità consiste nella peculiarità della combinazione»5.

Identico il fenomeno, come manifestazione della sostanza, alla sostanza stessa, come somma degli atti delle unità elementari, e del pari identico, e per la stessa ragione, l’effetto alla causa: la quale consta degli elementi concorrenti nella norma di atti, che è l’effetto. Che se l’effetto pare talvolta altro dalla causa, la legge della identità è sempre rispettata; e il risultato è la somma di identici; poiché quando A è causa di B, allora effettivamente A e B devono far parte d’un sol tutto, la cui reintegrazione fa essere B come fa essere A, Fa essere cioè il cangiamento, che riesce sempre somma di unità. Le «risultanze continuamente diverse, considerate distintamente e nella loro successione di prima e dopo, rappresentano le cause e gli effetti tra loro distinti, ma riguardate nel loro insieme o nel loro risultamento, sono tante concause che s’identificano col loro effetto totale, e col tutto che da loro stesse risulta»6.

Ora, se l’effetto non è altra cosa dalla causa, se il fenomeno non è la manifestazione d’un noumeno, se non è l’altro di una potenza distinta da esso, l’ideologia è la stessa ontologia: anche il pensiero, come ogni altro cangiamento, è somma di atti sostaziali, o sostantivi, come dice il Corleo. Il quale per tal modo non dubita punto di aver superato per sempre il soggettivismo, che consisterebbe, secondo lui, nel misero circolo vizioso di ritenere per certo «che il plurale fenomenico, qual è il pensiero, non sia un insieme di veri elementi, ma sia un fenomeno vuoto, di cui resta a cercare la causa o le cause al dì fuori di lui». «É il falso supposto», egli aggiunge, «che reagisce sopra sé stesso, come se dicesse: il 100 è egli composto di cento unità, o è una vuota apparenza, o è il prodotto di una sola unità? Per dir questo, bisogna supporre che il 100 possa realmente non esser 100, ma appariscenza, di 100, o prodotto di una sola unità». Due assurdi, dato l'inconcusso principio d’identità.

Identico ragionamento, - senza la vantata rettificazione dell’idea di sostanza e la pompa del principio, d'identità, ma pur presupposti quella e questo, - al ragionamento onde il realismo empirico dei positivisti, supponendo che il pensiero possa essere un risultato di attività concorrenti che non sono pensiero, e devono valere come oggetto del pensiero, e però nel pensiero (ossia appunto come pensiero), trova evidente che esso pensiero sia realisticamente valido da quanto la realtà che lo produce; e non avverte che la stessa realtà onde quel realismo costruisce il valore del pensiero, non può aver valore, se non l’ha prima il pensiero: e che, insomma, ridotto il pensiero a un fatto, nessun fatto è concepibile, e tanto meno quindi lo stesso pensiero. Il Corleo, con la sicurezza dei vecchi dommatici, non pone mente che la sua equazione formale 100 = 100, in tanto prova che il pensiero è identico alla somma degli atti sostantivi, dalla cui combinazione risulta, in quanto esso risulta dalla combinazione di un certo numero di atti sostantivi, che non sono essi stessi pensiero, e non sono quell'unità che é, il pensiero. Non s’accorge e non può accorgersi che dentro al circolo c'è qui non il soggettivista, ma il filosofo dell'identità. Non può accorgersene, perché, ripeto, egli muove dai fatti, dall'osservazione dalla certezza immediata di quel mondo, per cui il pensiero non è esso stesso se non un fatto, e però la negazione del pensiero; il mondo della natura, il mondo saldo e incrollabile del positivista.

E così anche il Corleo fa della sensazione una funzione speciale risultante da organi adatti a compierla; «i quali non potrebbero pur modificarsi e produrre da se stessi i cangiamenti e le diversità della sensazione medesima; se diversa non fosse da una parte la loro conformazione, e se dall'altra diversamente non venissero impressionati dagli agenti esteriori». Onde, «subbiettivamente considerata, la sensazione non è che la risultanza de' suoi stessi organi, poiché l'effetto è identico con l'insieme degli elementi che lo costituiscono». Dall'altra parte «se la sensazione è un risultato, un insieme di sostanze-azioni, come in generale ogni fenomeno, e se gli elementi del risultato sono atti intransitivi, immutabili, incapaci di cangiare sé stessi né altri, egli è chiaro che tutti i cangiamenti subbiettivi organici della sensazione debbono avere fuori degli organi il tanto di ragione al rispettivo cangiamento. In altri termini, la sensazione è una larga risultante delle azioni sostanziali esterne o oggettive o delle azioni sostanziali interne all'uomo o subbiettive»7. Tutta, insomma, la solita mitologia della psicologia empirica.

Occorre dire che tutte queste sostanze elementari del mondo sono la stessa materia, battezzata o no per tale, dei positivisti? Il Corleo, chiuso nel suo formalismo matematico, non sapendo delle sostanze, se non che sono unità equivalenti, componibili e scomponibili, tutte reali in quanto non si possono pensare altrimenti, non sa propriamente dell'essenza loro più di quanto l'Herbart sappia del was de' suoi reali;- egli è costretto dalla stessa posizione del suo problema empirico - che è la spiegazione del cangiamento, dati gli elementi che costituiscono la realtà - allo stesso agnosticismo di tutti i positivisti, che, uscendo fuori dal reale (che è in loro) e mettendosi a riguardo ab extra, non possono di certo vederne più della superficie. Ma la parte assegnata da lui alle sue sostanze, inerti e bruti elementi di un meccanismo tutto estrinseco, è, come la natura meccanicisticamente concepita da tutti i positivisti, schietta materia. Ed egli infatti sente che la sula concezione del pensiero come risultante dalla somma delle sue sostanze, sarebbe materialistica: sarebbe, se egli non confidasse di tagliare il nodo, onde egli stesso si viene strettamente avvincendo nel mondo buio dell'atomismo.

Egli si fa un grande merito di fare della filosofia universale una universale matematica: ragguagliata la realtà a un numero determinabile, se non determinato, di unità elementari, ciascuna identica costantemente a sé stessa ed equivalente (quantitativamente) a tutte le altre; numero perciò divisibile in quantità aventi tra loro rapporti costanti e proporzioni fisse8. Tutto lo sforzo e il valore della scienza è, dunque, per lui risolvere le qualità in quantità (l’opposto di quel che pensava il Leibniz); scompaginando tutte le qualità onde ciascuna cosa è sé stessa, e ragguagliando tutto l'universo, a un sol confine, dove non regga altra legge che il numero: che è appunto il più logico assunto del materialista.

Intanto, è veramente spiegabile con questo solo criterio quantitativo lo stesso cangiamento meccanico? Nella Filosofia universale, come nei Fluidi, movendo dal suo concetto di sostanza, il Corleo nega il non-essere di Democrito, lo spazio vuoto che rende possibile in se il movimento degli

atomi, e il loro accozzamento, donde il divenire naturale. Anzi, il vuoto, la mancanza dei contatti, renderebbe secondo lui impensabile il movimento, come cangiamento spontaneo delle singole sostanze. Queste non si possono pensare se non contigue tutte quante, e spostatili soltanto per effetto del variare dei loro rapporti. Lo spazio pertanto è lo stesso mondo, gli esseri che lo compongono, le loro relazioni di contatto, la loro mutua sostituibilitá: finito come il numero delle sostanze elementari, onde consta il mondo.

Orbene: posta quella che il Corleo dice prima e fondamentale legge cosmica, dell'aggregazione continua; se la massa mondiale è un insieme compatto di monadi materiali, prive di qualsiasi potenzialità, senza interstizio di sorta, come si supera quello stato di universale equilibrio e quiete, in cui pare che tutta la massa venga in questo modo a comporsi? La soluzione del Corleo è questa:

«Dovendo l'aggregazione esser continua e non potendo essere infinito il numero degli elementi, me per sé stesso dovendo essere numero determinato e preciso, per quanto pure sian limitale rispetto ad esso le nostre conoscenze, è ben certo che debba per necessità esservi una periferia, avente una figura od un'altra (non importa), ed in corrispondenza uno o più centri della periferia stessa». E il numero è determinato e preciso perché il tutto altrimenti, come s'è visto, non sarebbe maggiore delle parti in cui si può dividere. «Or non sono le stesse le condizioni delle singole sostanze che sono alla periferia, e di quelle che sono al centro, di quelle, che sono ad un terzo, a metà, a due terzi di raggio, e via via. Non è sola differenza dì distanza di ciascuno degli elementi rispetto al centro, ma ciascuno è in aggregazione attiva con tutti gli altri suoi vicini, e quindi ognuno porta su di sé la somma o la risultante maggiore o minore degli altri, in ragione che sia più vicino al centro, ossia da esso più lontano. Posto il contatto attivo universale dì tutti gli elementi mondiali, i loro raggi, convergendo verso il centro, si assommano, si addensano necessariamente, come al contrario sono meno numerosi e meno densi alla periferia. Onde è ben minore la somma dei
contatti attivi che porta su di sé un elemento, il quale si trova alla periferia, di quella che porta su di sé un altro simile elemento, il quale sia a metà di raggio, presso al centro, o al centro stesso»9.

Non discuto la solidità di tutta questa rappresentazione, che è una ipotesi come tutte le altre non difficili alla fantasia mitica dei naturalístì, condannati, eterni Sosifi, a costruirne e ricostruirne di continuo. Incontestabile mi pare che qui il Corleo non tiene fede egli stesso al decantato principio d'identità (al quale già, per sé solo non c'è chi possa tener fede, e intanto pensare). Egli finora ci aveva parlato di sostanze, che sono unità e fan numero: ossia di quantità equivalenti. «Ogni unità elementare», egli diceva, «è identica costantemente a sé stessa e vale quanto un'altra». E questa era è la base della matematicità dell’universo. Inoltre, questa quantità doveva essere, per essere quantità assoluta, la risoluzione d’ogni qualità. Che altrimenti la scienza non sarebbe stata più il calcolo delle proporzioni quantitative, ma anche la ricerca delle qualità proprie delle varie sostanze, o, per lo meno, questa e quello. Qui invece, per mover le acque di quell'eterna bonaccia in cui gli si rappresentava all’immaginazione l'oceano delle sue sostanze elementari, egli comincia a introdurre in ciascuna di esse qualche cosa che ne distrugge la identità primitiva, sovverte la concezione meramente quantitativa del loro molteplice, e intacca quindi profondamente, anzi distrugge la matematicítà della Filosofia Universale. Infatti, ciascuna delle sostanze della massa, in cui solo è possibile che essa venga concepita, è diversa dalle altre; è diversa bensì, per la posizione, che non è pel Corleo un carattere interno della sostanza; ma non è interno perché il Corleo crede di avere staccato quello che non ha punto staccato. Giacché se la sostanza non si può pensare se non come parte di un tutto, avente una periferia, e quindi o come più vicino al centro, o come più vicino alla periferia, può essere estrinseca alla sostanza una determinata posizione, ma non una posizione. E vedemmo già nei Fluidi imponderabili come, a differenza dell'Herbart, Il Corleo non disgiunga dal concetto dei suoi reali la loro mutua correlatività. E se le sostanze sono diverse peri loro rapporti di posizione, ognun vede che non è vero che il cangiamento, a cominciare dal moto spaziale, sia un rapporto di posizione proveniente dall’aggregazione delle monadi, se non a patto di dire insieme che le monadi nel loro essere determinato provengono dai rapporti di posizione. Che è come dire che l'essere non è l’identico, l’essere non è la monade elementare, ma l’essere è il cangiamento, in cui le monadi non si possono distinguere l’una dall'altra. O altrimenti: le monadi non si sommano, ma si organizzano coi loro caratteri differenziali; e il mondo non si divide, perché dividendosi muore, come ogni cosa che è viva per un principio che l'unifica inscindibilmente.

 


V

Ma valga quel che può valere la matematica del Corleo, certo essa rientra nell'intuizione schiettamente positivistica; e non ne esce se non per distrugger sé stessa. Giacché essa ne esce certamente, ma cessando di esser matematica, cessando di esser la particolar filosofia del Corleo, scotendo le stesse fondamenta dei presupposti positivistici. Ne esce per imporre alla meccanica psichica un cappello spiritualistico, e per preporre alla meccanica cosmica una causalità teistica: con un così evidente segno del distacco tra l'intuizione naturalistica fondamentale e l’arbitraria integrazione metafisica, da render testimonianza, come s'è di sopra accennato, della insufficienza assoluta di quella fondamentale intuizione rispetto ai problemi maggiori della filosofia.

Il Corleo non sente, urgente almeno, il bisogno dello spirito, della libertà che è propria di esso, per tutta la ricostruzione dell’attività teoretica; ma, quando passa alla pratica, e sente che spiegare col 100 = 100 il prodursi del volere sarebbe un aggiogarlo alla falsità, dà addietro. Sente che quella materia, per cui egli ha insegnato che 100 – 1 = 99, 100 + 1 = 101, «è sempre fatale in tutte le sue risultanze». Come fare? In matematica non si ammetto opinioni, dice Kant. E allora, sit pro ratione voluntas:  e il Corleo fa 100 + 1 = 120. Leggiamo il § 337 del Sistema:10.

«Se questo è il concetto vero della fatalità, non può la libertà altro che la plusvalenza di alcuno degli elementi del risultato sopra tutti gli altri, di guisa che il risultato non sia esattamente identico alla somma numerica degli elementi che lo compongono; ma perché alcun di loro vale come atto sostantivo più degli altri, la risultante corrisponderà alla natura medesima dei componenti, cioè con un numero minore di elementi, per la plusvalenza di uno di essi, si avrà una somma di azione maggiore, non corrispondente al numero. Questa plusvalenza, se veramente ci fosse, dovrebbe comparire con ispecialità nel caso che il risultato venisse a diminuire ne' suoi elementi, rimanendovi pero quello che vale più degli. altri... Se vi ha un gruppo di tot elementi, di cui 100 tutti di egual natura o di eguale atto sostantivo, ed uno che valga nel suo atto sostanziale quanto valgono venti di essi, al quale daremo il nome di a, si avrà allora un risultato numerico 101, ma nel complesso degli alti sostanziali si avrà 100 + (a = 20) = 120. Or se dal gruppo si toglieranno 60 rimanendovi a, si avrà il numero di elementi 41, ma la risultanza attiva sarà di 40 + (a = 20) = 60, cioè il risultato per una terza parte sarà proprio di a, mentre nel precedente risultamento l'a non ci aveva che la proprietà di un solo sesto. Or se mai da cotesto gruppo numerico 41 si toglieranno tuttavia altri 30 elementi, rimanendovi sempre a, si avrà numericamente 11, ma nel complesso sostanziale si avrà 10 + (a = 20) =30. Allora due terze parti di quel complesso apparterranno ad a. Così ancora, se la diminuzione degli altri elementi avanzasse, la plusvalenza dell’a si renderebbe sempre più manifesta, ed il complesso: sarebbe composto dell'azione sua sostantiva in massima parte; azione sostantiva, ch’è sempre identica a sé stessa, senza potenza né cangiamento alcuno, ma che per la sua plusvalenza, nella mutazione decrescente del risultato, dà prodotti non proporzionali al numero».

Questa diminuzione degli elementi del complesso materiale funzionante col progressivo aumento proporzionale di una speciale funzione il Corleo, riflettendovi bene, la trova non solo nella libertà del volere, che si vien liberando dalla causalità naturale, ma nell'esercizio dell’astrazione funzione, secondo lui, privilegiata dell’uomo tra gli animali, che non cresce con la somma, ma con la divisione delle percezioni. Ma è evidente che la materia per cui 101 può essere 120, e 41 può essere 60 e 11 può essere 30 non è più matematica. Perché quell’a, se non è 1, non può essere né anche 20 e la plusvalenza fosse meramente quantitativa (20-1), non si potrebbe parlare più di un’unità plusvalente, ma di 20 unità equivalenti. E la matematica sarebbe restaurata facendo 100+20 =120, senz’altro. Il 20 qui pel Corleo non è più 20: è un venti che è uno, ossia uno tutto indivisibile. E però non è più un numero ragguagliabile al 100; non è un numero, non è quantità, è qualità irriducibile a un’altra qualità. E allora non solo lo spirito è qualità, ma anche la materia. E la spiritualità, sovrapposta al materialismo, lo schiaccia. E la matematica al contatto della qualità svanisce.

Passiamo a Dio. Il mondo è pluralità determinata, in aggregazioni diverse, come s’è visto, e quindi in movimento, che importa passaggio da uno stato all’altro, e coincide col tempo. Ora tempo significa prima o poi, successione di rapporti, che devono rimontare a un primo rapporto. Perché se non ci fosse il primo, non ci sarebbe il secondo, il terzo, mancherebbe la successione; e il tempo si confonderebbe con l’enternità, dove non c’è distinzione di momenti, e il luogo del numero si ha l’uno. Il tempo è finito e numerabile, e però ha principio e fine. Quindi il moto, che è lo stesso tempo, non è eterno. Né può essere eterna la materia, la quale, una volta posta, non può non muoversi, essendo quella pluralità aggregata che s’è detta. Si dirà che la materia, non non eterna in quanto pluralità, è eterna nella sua radicale unità, donde sgorgherebbe la pluralità? Ma questo contrasta all’identità della sostanza. L’uno non può essere mai che l’uno; e il molto non può derivare da esso. Dunque? Il molto è un fatto, e poiché non è eterno, ha dovuto cominciare; cominciare significa esser preceduto da altro; il mondo, dunque, è stato preceduto da altro, che non è cominciato, ma è eterno; e che non può esser molto, ché altrimenti sarebbe cominciato anch'esso. Il molto, anche pel Corleo, come pel D'Acquisto e tutti i leibnziani della scuola monrealese, instaurata dal Miceli, il molto finito, perché numerabile, e temporale, è preceduto dall'Uno eterno, che lo fa essere, senza farlo partecipare in modo veruno del proprio essere, perché la partecipazione importerebbe un cangiamento impossibile nella sostanzialità dell’Uno; e insomma, lo crea dal nulla. Ecco il creatore, ecco Dio.

Anche qui io non voglio cercare i sofismi che viziano l'argomento del Corleo: mi limito solamente a notare che la filosofia dell'identità, coi suo matematicismo, in questo problema fallisce: non per colpa sua, beninteso, ma di quella realtà, che veramente, fatti bene i conti, non è identica a sé stessa né nel tutto, ne nelle sue parti singole, le quali poi solo a tal patto sarebbero numerabili11. Se i molti fossero nient'altro che molti, e l'Uno nient'altro che uno, se le sostanze tutte non fossero se non unità, come potenze attuate, reali semplici, i molti essendo il numero x, i molti e. l'Uno sarebbero x + I: ossia non mondo e Dio, ma un numero, il mondo solo. Perché il mondo sia altro da Dio, l'Unità di questo e la molteplicità di quello non devono essere sommabili: non devono essere quantità, ma qualità. Cioè non basta che l'Uno non sia molti, ma ciascuno dei molti non dev'essere molti: ossia moltiplicabile o sommabile; ciascuna monade mondana non dev'essere un'unità indifferente qualitativamente, ma un’unità di una certa qualità: di quella qualità di cui ci ha molte monadi. La posizione, insomma, privilegiata di Dio rispetto al mondo, di quest'Uno che non è unita matematica, reagiste sugli uni materiali e spirituali del mondo, qualificandoli per differenziarsene: e col qualificarli, li sottrae alla mera definizione quantitativa e li fa quindi sfuggire alle prese della filosofia dell'identità.

O mondo matematico senza Dio. O Dio senza matematica, né in sé ne fuor di sé. Incipis numerare, incipis errare.

Giovanni Gentile

 

  1. Sist.,§ 76.
  2. Sist.,§ 77.
  3. Ivi, §§ 78-79.
  4. Sist., § 88 , p. 54 n.
  5. B. D’Acquisto, Della scienza univ., Palermo, Lao, 1850, §§ 512, 30.
  6. Sist., § 100.
  7. Sist., §§ 256, 257, 261. Cfr§ 114.
  8. Ivi, § 90.
  9. Sist., § 149.
  10. Cfr. il cap. VIII dell’antropologia nella univ., II 291 sgg.
  11. Vedi univ., §§ 230-236; Sistema, §§ 127-128, 229-233.