Amato

Conferenza tenuta il 4 dicembre 1910, pubblicata su Annuario della Bibl. Fil., vol. I, 1912, pp. 202-204

 

Le più antiche tragedie elleniche della metempsicosi si trovano nei poemi omerici che contengono se non tutti, come si affermò esageratamente, certo molti germi, che poi si svilupparono nell'arte e nella speculazione greca. - Il mito di Circe, che compare nell'Odissea, è il più antico esempio di metempsicosi - o, qui forse più esattamente, m e t a s o m a t o s i - che si possa trovare. Per opera della bellissima figlia del Sole gli uomini, pur mantenendo la loro psiche, vengono trasformati in quei bruti, che più e meglio corrispondono alle loro qualità. - Però questa trasformazione non è contraddistinta dalla morte, e non è neppure completa, giacché permangono più i caratteri propriamente umani; inoltre, se in potenza è possibile a tutti gli uomini, in atto però è solo di quelli, che cadono, nelle mani della maga.

Se poi passiamo ad esaminare la satira di Simonide di Amorgo contro le donne vi troviamo come caratteristico prima di tutto non un abbassamento dell'umano al belluino, anzi una elevazione dal belluino all'umano, per quanto riservata solo alla donna, e poi la derivazione animalesca dell’anima e del corpo insieme.

In Senofane si trova un accenno esplicito ad una vera e propria dottrina filosofica della metempsicosi attribuita a Pitagora. Ma generalmente nella poesia si restò per molto tempo ad una forma molto elementare di questa dottrina, che non usciva dai limiti di una semplice credenza popolare, come si ricava per esempio dal monologo di Cratone nella Theophorumene di Menandro (framm. 223).

Se non che già in parecchi miti entrava come elemento costitutivo una trasformazione da forma umana a belluina o un innesto dell'una sull'altra (Io, Gerione, Proteo, i Centauri, la Sfinge, Atteone), ed è interessante osservare che spesso questi miti ci riconducono all'Egitto: né ciò deve far meraviglia, poiché Erodoto (II, 123) attribuisce la enunciazione della teoria della metempsicosi agli Egiziani, dai quali l'avrebbero ricevuta i filosofi greci.

Fra questi Platone svolse compiutamente tale dottrina e ne fece un elemento essenziale del suo sistema.

Chi esamini la dottrina come è trattata prima nel Fedro quindi nel Timeo, ne può agevolmente avvertire i punti di contatto con quella egiziana, com'è data da Erodoto, e osservare che le esposizioni dell'uno e dell'altro dialogo si compiono a vicenda, e vengono insieme integrate da quanto è qua e là accennato in proposito negli altri dialoghi platonici. Donde è pur dato di ricavare che Platone professò costantemente questa dottrina, che attraverso alla scuola pitagorica perveniva a lui dall'Egitto: infatti, oltre alle parole di Erodoto, abbiamo in proposito la testimonianza medesima di Platone, il quale fa esporre da un Pitagorico (Timeo) questa dottrina, e nel Timeo stesso e nel Crizia, che n’è la continuazione, insiste su elementi e leggende egiziane o ritenute tali. Egli trova questa dottrina consona al suo sistema filosofico, vi scorge anzi il culmine e il coronamento dell'opera; ivi trova ciò che spiega tutte le altre teorie filosofiche e spiega il mondo nel tutto e nelle parti, massime e minime, nel presente e nel passato, nell'essere e nel divenire, nella materia e nello spirito. Nessuna meraviglia dunque ch'egli l'accetti, qualunque ne sia l'origine, e che vi introduca probabilmente elementi propri. Ma questa dottrina di che natura è? Se osserviamo che i particolari e il fatto stesso vengono affermati ed esposti non con dimostrazioni, ma come rivelazione, e che anzi si dichiara impossibile la dimostrazione, risulta evidente che per Platone la metempsicosi è non già dottrina semplicemente filosofica, ma anche vera e propria credenza religiosa.