Amato

Conferenza tenuta il 3 luglio 1910 e pubblicata sul  Boll. della Bibl. Filos. di Firenze, a. 111 (1911), pp. 369-372, e su Annuario della Bibl. Fil., vol. I, 1912, pp. 195-200

 

Quanti hanno letto Emerson, e non sono molti in Italia, sanno che il fascino e l’efficacia grande che egli esercita sull’animo dei suoi lettori, è dovuto più al suo carattere, che alla sua cultura, al suo ingegno, alla sua filosofia. Per poter quindi comprendere e valutare esattamente l’opera sua, è necessario conoscere l’uomo, oltreché lo scrittore e ricostruire la sua figura morale e spirituale, di cui gli scritti sono una diretta espressione. Ma il carattere di Emerson sfugge ad ogni nostra determinazione: la purezza della sua anima fu tale che ci impedisce di discernere le linee della sua persona. La sua modestia, uguagliata solo dalla serenità inalterabile del suo temperamento, lo trattenne sempre dal pensare e dal parlare di se stesso e non permise che altri ne parlasse. Quest’oblio completo della propria persona, gli veniva dall’amore per la perfezione morale che lo distolse quasi del tutto dagli affetti umani. «Amo l’uomo, egli scriveva nel suo Giornale, e non gli uomini». Della vita non seppe e non volle vedere che il lato bello ed immortale, e visse così in un mondo di una realtà soprasensibile. Non conobbe le lotte terribili tra il bene e il male, e fu esente da quegli appetiti animali a cui soccombono talvolta anche gli spiriti più elevati. Mistico per temperamento e per razza, la natura della sua intelligenza fortificò in lui la tendenza del suo carattere; ed egli predilesse, tra i grandi pensatori, quelli che si innalzarono alla verità per virtù d’intuizione. Però, a differenza degli altri mistici, era dotato d’un solido buon senso o possedeva una vasta cultura, sì che gli riuscì di evitare ogni eccesso e ogni esaltazione; il suo misticismo non si perde in vuote contemplazioni, ma conduce all’azione ed esercita un’efficacia pratica sull’individuo umano.

Spirito mistico e positivo a un tempo, amante del divino, ecco quale ci appare Emerson quando si cerca di determinarne la fisionomia morale; ma noi sentiamo che questa determinazione è puramente esteriore e che l’anima sua ci sfugge, rimane incomunicabile.

E allora sorge in noi il dubbio che anche l’opera sua, manifestazione del suo io inafferrabile, sfugga ad ogni nostra analisi, si sottragga ad ogni valutazione teorica. Questo hanno creduto e sostenuto la maggior parte dei suoi critici e ammiratori: i primi perché hanno giudicato il suo pensiero troppo confuso e contraddittorio per esser analizzato e valutato razionalmente: gli altri perché hanno ritenuto che criticare Emerson significa profanarlo, dal momento che egli non fu un filosofo o uno scienziato, ma una grande anima, le cui visioni ed ispirazioni hanno valore per la loro profondità e sincerità e non per il loro contenuto.

Ma poiché Emerson non fu né un pazzo visionario né un idiota vaneggiatore, è evidente che il suo pensiero, per quanto vario e contraddittorio, debba riposare sopra alcuni principii fondamentali bene accertabili; ed è dovere di una critica imparziale porre in rilievo questi principii, in cui si compendia tutta l’essenza dell’opera sua. Emerson coi suoi scritti si propone un duplice scopo; e come nel campo morale, da un lato, frusta a sangue gli imbelli e gli accidiosi e dall’altro suscita nell’animo nuove energie celebrando la vita interiore e mostrando tutte le possibilità della natura umana: così, nel campo teoretico, dimostra da una parte l’impotenza della ragione a risolvere il problema della vita, e dall’altra afferma la necessità di rimettersi allo spirito, che solo può guidarci alla visione suprema del vero. La verità non è frutto di una ricerca intellettuale, ma figlia dell’ispirazione: non è una teoria, ma uno stato d’animo; non può esser dimostrata, ma sentita, e solo da quelli il cui spirito è puro, perché essa ha un’identità assoluta col bene. Per contemplarla, bisogna abbandonarci alle nostre ispirazioni, senza preoccuparci se esse variino e talvolta si contraddicano, perché nessuno stato d’animo può racchiudere tutta la verità, e il variare continuo delle nostre intuizioni ci insegna a trovare l’eterno nell’effimero, l’unità nella diversità. Quando si scende nelle profondità della nostra anima per cercare l’origine di queste ispirazioni, noi veniamo in contatto con un principio eterno, immutabile, supremo, che chiamiamo spirito; esso è l’unica realtà dell’universo, ed è ineffabile, perché nessuna parola serve ad esprimerne la pienezza.

Nulla può esistere fuori dello spirito, nulla può sottrarci alla legge che domina tutte le cose: né questa concezione è fatalistica, perché l’uomo, in cui lo spirito si fa cosciente, ha la facoltà di riconoscere volontariamente l’onnipotenza della legge e di attuarla così liberamente.

Se lo spirito è l’unica realtà, il male non può esistere sostanzialmente. Esso non è che privazione, e quindi illusorio: e neppure esiste il peccato, e l’uomo deve negarlo per affermare solo il bene, che è l’unica manifestazione reale della vita suprema. Ma gli uomini hanno smarrito la via del bene e, per ritrovarla, debbono tornare alla natura; la natura, che è il tempio della divinità, l’organo di cui lo spirito si serve per rivelarsi all’individuo e ricondurlo a sé. La natura sotto l’infinito variare delle sue forme è sempre identica a se stessa e ripete sempre due leggi fondamentali: quella di compensazione e quella del miglioramento progressivo. Per la prima legge nessuno può sfuggire alle conseguenze delle proprie azioni, perché ogni atto che compie segna un progresso o un regresso nella sua vita interiore; per la seconda, l’universo tende al suo perfezionamento mercé la collabora­zione concorde di tutte le sue parti. L’individuo umano viola sempre questa legge e tenta di far servire il mondo ai suoi scopi egoistici; ma la natura procede per la sua via e a furia di dolorose e tragiche esperienze insegna all’uomo quanto sia vano ogni desiderio personale dinanzi alle infi­nite possibilità di un’ascensione senza limiti. E allora, quando ci sorge dinanzi la visione dell’unica vita universale dello spirito, noi ci abbandoniamo tutti con un atto d’amore e di fede a questa realtà suprema, lieti di annullarci in essa. Né più ci turba il pensiero della vita futura, il problema della nostra immortalità, perché comprendiamo che per noi ha valore l’attimo che fugge e non i secoli che verranno, e che quando si compie tutto il nostro dovere per la profondità stessa della nostra vita morale noi si entra a far parte dell’eterno.

Questo è il fine a cui dobbiamo tendere; e a facilitare all’uomo il raggiungimento di esso, Emerson ha dedicato la parte migliore di se stesso e dell’opera sua. Egli è stato un grande rinnovatore della coscienza umana e ha mostrato all’individuo la via della perfezione con la dottrina della fiducia in se stesso, la Self Reliance, che costituisce, secondo i suoi ammiratori, il Vangelo della vita moderna. Questa dottrina così famosa, che pochi hanno intesa, non è altro in fondo che l’applicazione delle leggi spirituali alla vita dell’individuo: per Emerson infatti l’aver fede in sé, il ribellarsi alla morale piccina e livellatrice della società contemporanea per affermare la propria indipendenza di carattere, il proprio io, non è atto d’orgoglio, ma è un riconoscimento della realtà suprema dello Spirito, perché l’io a cui ci appoggiamo, non è altro che la più alta manifestazione della vita divina.

Questa teoria della Self Reliance, Emerson l’applica anche alla vita famigliare e politica; e dimostra come questo principio dell’obbedienza al divino formi l’unica base su cui si possa innalzare il solido e armonico edificio della famiglia e dello stato. Per Emerson l’etica e la religione si identificano: il Vangelo ha valore solo in quanto è manifestazione della legge morale. Egli non ammette la divinità di Cristo e riconosce in tutti gli individui le stesse infinite possibilità di perfezione spirituale; e invero dinanzi alla grandezza della legge, in faccia all’unica Realtà, che sono le persone, se non raggi della luce divina?

Queste, schematicamente esposte, le idee di Emerson. Il criticarle, il mostrarne le grandi lacune, è facile impresa; ed è anche utile, purché la critica sia mantenuta entro i limiti imposti dalla natura dell’opera emersoniana. Però, quando noi abbiamo messo in luce le deficienze e gli errori del pensiero di Emerson, dobbiamo riconoscere onestamente che non abbiamo colpito nel segno: la nostra critica si appunta su idee che, isolate o tolte da quell’atmosfera d’intima vitalità che le circonda, perdono ogni valore spirituale; ma non tocca l’uomo, lo spirito vivente; questo, che nessuna critica può diminuire o distruggere, solo l’anima e il cuore sanno comprenderlo e amarlo.