Amato

IV

Con la logica dell’identità, per cui la cosa non può essere che sé stessa, il Corleo costruisce il suo concetto di sostanza; e con questo concetto distrugge la distinzione stessa di realtà e di fenomeno, come quelle di potenza e atto, e di causa ed effetto; e quindi molte questioni, che a torto avrebbero affaticato in ogni tempo la mente dei filosofi.

La sostanza è assoluta attualità e assoluta unità. Perché, se non fosse attuale, e fosse potenza e atto, e passaggio dalla potenza all’atto, essa non sarebbe identica a sé stessa; e se fosse unità insieme e pluralità, unità che si pluralizza, o unita in atto e pluralità in potenza, come uno e più a un tempo violerebbe del pari la legge della identità, e spianterebbe la logica. La sostanza è pertanto invariabile, perché la variazione implica la contraddizione della potenzialità non attuata; la quale poi non si potrebbe attuare per condizioni proprie dello stesso all’ente, perché in tal caso, l’atto coinciderebbe con la potenza, né per condizioni estranee all’ente, perché allora si supporrebbe che un altro ente potesse mutare sé stesso ed altrui, producendo quelle condizioni che prima non erano e facendole inoltre penetrare nella sostanza dell’ente da sé diverso, ove dovrebbero attuarsi le singole potenze1. «L’identico insomma non potrebbe mai trovare né in sé stesso, né in altro, la ragione per dar nascita al diverso, piuttosto ad uno che ad un altro diverso, a questo prima ed all’altro dopo»2.

Fin qui il Corleo non direbbe diversamente dall'Herbart. Ma il Corleo continua empiricamente: «Noi osserviamo le continue variazioni nei complessi; epperò col dividere e suddividere complessi medesimi arriviamo mentalmente alla impossibilità di continuare cotesta divisione all'infinito; poiché allora [l'aveva anche, detto nei Fluidi imponderabili] la parte ed il tutto sarebbero eguali, cioè egualmente divisibili all'infinito, non potendo esistere un infinito maggiore ed un infinito minore. Così ci persuadiamo della esistenza di enti primi, semplici, indecomponibili per difetto di parti, monadi. Or la ragione delle variazioni, invece di legarla ai complessi, in cui le variazioni stesse si osservano, vogliam noi riferirla a ciascuno di quegli enti primi..... da cui risultano i complessi. Questo modo di pensare sarebbe uguale a quello di chi, vedendo tutta la varietà numerica risultante dalla variazione di cento unità per sottrazioni, addizioni o trasposizioni di esse, vorrebbe credere che la ragione di tutte le varietà fosse in ciascuna delle unità semplici, invece di essere nel loro insieme, nella diversa e variabile loro composizione; vorrebbe supporre che in ogni unità esistesse la potenza di mutare sé stessa e le altre; attribuirebbe insomma ciò ch’è necessaria conseguenza del molteplice diverso a ciascuna delle unità individue che lo compongono»3.

Dunque, pel Corleo sono tanto le unità quanto le combinazioni o complessi delle unità, in cui si risolvono le variazioni. Sono o anzi le unità identiche, perché sono (si osservano) le combinazioni variabili. E poiché la combinazione vale come il complesso o somma o collezione delle unità elementari, Sostanze queste, sostanziale anche quella. «L'uno è sempre uno, sempre lo stesso uno, la pluralità è identica alla collezione delle unità, non è una cosa diversa da essa, ne è la produzione di una sola di esse» (§ 86). Non potrebbe essere più evidente il contrasto tra la fenomenalità del cangiamento herbartiano e la sostanzialità della variazione cor1eiana: contrasto, che torna a confermare la diversa posizione, speculativa dei due pensatori, metafisica e veramente speculativa per il tedesco, empirica e naturalistica per l'italiano. Il quale non muove propriamente dalla sostanza, ma dal fenomeno trattato come sostanza. Dal fatto osservato del variare, non saputo spiegare che per combinazione di un determinato numero di unità elementari: secondo le suggestioni che certamente ei dovette ricevere dagli scritti del conterraneo Benedetto D’Acquisto, che già aveva anche lui, «riconosciuto – lo avverte lo stesso Corleo4 la impossibilità della divisione all’infinito della materia, per la impossibilità di esservi (sic) un infinito maggiore ed un infinito minore, mentre per divider sempre bisogna necessariamente questa progressiva diminuizione di parti e di sottoparti»: e spiegava anche lui la natura, creata da Dio, come la combinazione di «primi principii, realtà semplici, indecomponibili fisicamente, invariabili in qualunque stato cui si considerano, sia nello stato di isolamento, sia in quello di composizione e decomposizione»; insegnando già che «ogni combinazione de’ principii, nella quale consiste la natura dell’essere che ne risulta, presenta due manifestazioni, cioè quella di quantità e quella di qualità: la quantità è relativa al numero de’ i principi che si combinano; la qualità consiste nella peculiarità della combinazione»5.

Identico il fenomeno, come manifestazione della sostanza, alla sostanza stessa, come somma degli atti delle unità elementari, e del pari identico, e per la stessa ragione, l’effetto alla causa: la quale consta degli elementi concorrenti nella norma di atti, che è l’effetto. Che se l’effetto pare talvolta altro dalla causa, la legge della identità è sempre rispettata; e il risultato è la somma di identici; poiché quando A è causa di B, allora effettivamente A e B devono far parte d’un sol tutto, la cui reintegrazione fa essere B come fa essere A, Fa essere cioè il cangiamento, che riesce sempre somma di unità. Le «risultanze continuamente diverse, considerate distintamente e nella loro successione di prima e dopo, rappresentano le cause e gli effetti tra loro distinti, ma riguardate nel loro insieme o nel loro risultamento, sono tante concause che s’identificano col loro effetto totale, e col tutto che da loro stesse risulta»6.

Ora, se l’effetto non è altra cosa dalla causa, se il fenomeno non è la manifestazione d’un noumeno, se non è l’altro di una potenza distinta da esso, l’ideologia è la stessa ontologia: anche il pensiero, come ogni altro cangiamento, è somma di atti sostaziali, o sostantivi, come dice il Corleo. Il quale per tal modo non dubita punto di aver superato per sempre il soggettivismo, che consisterebbe, secondo lui, nel misero circolo vizioso di ritenere per certo «che il plurale fenomenico, qual è il pensiero, non sia un insieme di veri elementi, ma sia un fenomeno vuoto, di cui resta a cercare la causa o le cause al dì fuori di lui». «É il falso supposto», egli aggiunge, «che reagisce sopra sé stesso, come se dicesse: il 100 è egli composto di cento unità, o è una vuota apparenza, o è il prodotto di una sola unità? Per dir questo, bisogna supporre che il 100 possa realmente non esser 100, ma appariscenza, di 100, o prodotto di una sola unità». Due assurdi, dato l'inconcusso principio d’identità.

Identico ragionamento, - senza la vantata rettificazione dell’idea di sostanza e la pompa del principio, d'identità, ma pur presupposti quella e questo, - al ragionamento onde il realismo empirico dei positivisti, supponendo che il pensiero possa essere un risultato di attività concorrenti che non sono pensiero, e devono valere come oggetto del pensiero, e però nel pensiero (ossia appunto come pensiero), trova evidente che esso pensiero sia realisticamente valido da quanto la realtà che lo produce; e non avverte che la stessa realtà onde quel realismo costruisce il valore del pensiero, non può aver valore, se non l’ha prima il pensiero: e che, insomma, ridotto il pensiero a un fatto, nessun fatto è concepibile, e tanto meno quindi lo stesso pensiero. Il Corleo, con la sicurezza dei vecchi dommatici, non pone mente che la sua equazione formale 100 = 100, in tanto prova che il pensiero è identico alla somma degli atti sostantivi, dalla cui combinazione risulta, in quanto esso risulta dalla combinazione di un certo numero di atti sostantivi, che non sono essi stessi pensiero, e non sono quell'unità che é, il pensiero. Non s’accorge e non può accorgersi che dentro al circolo c'è qui non il soggettivista, ma il filosofo dell'identità. Non può accorgersene, perché, ripeto, egli muove dai fatti, dall'osservazione dalla certezza immediata di quel mondo, per cui il pensiero non è esso stesso se non un fatto, e però la negazione del pensiero; il mondo della natura, il mondo saldo e incrollabile del positivista.

E così anche il Corleo fa della sensazione una funzione speciale risultante da organi adatti a compierla; «i quali non potrebbero pur modificarsi e produrre da se stessi i cangiamenti e le diversità della sensazione medesima; se diversa non fosse da una parte la loro conformazione, e se dall'altra diversamente non venissero impressionati dagli agenti esteriori». Onde, «subbiettivamente considerata, la sensazione non è che la risultanza de' suoi stessi organi, poiché l'effetto è identico con l'insieme degli elementi che lo costituiscono». Dall'altra parte «se la sensazione è un risultato, un insieme di sostanze-azioni, come in generale ogni fenomeno, e se gli elementi del risultato sono atti intransitivi, immutabili, incapaci di cangiare sé stessi né altri, egli è chiaro che tutti i cangiamenti subbiettivi organici della sensazione debbono avere fuori degli organi il tanto di ragione al rispettivo cangiamento. In altri termini, la sensazione è una larga risultante delle azioni sostanziali esterne o oggettive o delle azioni sostanziali interne all'uomo o subbiettive»7. Tutta, insomma, la solita mitologia della psicologia empirica.

Occorre dire che tutte queste sostanze elementari del mondo sono la stessa materia, battezzata o no per tale, dei positivisti? Il Corleo, chiuso nel suo formalismo matematico, non sapendo delle sostanze, se non che sono unità equivalenti, componibili e scomponibili, tutte reali in quanto non si possono pensare altrimenti, non sa propriamente dell'essenza loro più di quanto l'Herbart sappia del was de' suoi reali;- egli è costretto dalla stessa posizione del suo problema empirico - che è la spiegazione del cangiamento, dati gli elementi che costituiscono la realtà - allo stesso agnosticismo di tutti i positivisti, che, uscendo fuori dal reale (che è in loro) e mettendosi a riguardo ab extra, non possono di certo vederne più della superficie. Ma la parte assegnata da lui alle sue sostanze, inerti e bruti elementi di un meccanismo tutto estrinseco, è, come la natura meccanicisticamente concepita da tutti i positivisti, schietta materia. Ed egli infatti sente che la sula concezione del pensiero come risultante dalla somma delle sue sostanze, sarebbe materialistica: sarebbe, se egli non confidasse di tagliare il nodo, onde egli stesso si viene strettamente avvincendo nel mondo buio dell'atomismo.

Egli si fa un grande merito di fare della filosofia universale una universale matematica: ragguagliata la realtà a un numero determinabile, se non determinato, di unità elementari, ciascuna identica costantemente a sé stessa ed equivalente (quantitativamente) a tutte le altre; numero perciò divisibile in quantità aventi tra loro rapporti costanti e proporzioni fisse8. Tutto lo sforzo e il valore della scienza è, dunque, per lui risolvere le qualità in quantità (l’opposto di quel che pensava il Leibniz); scompaginando tutte le qualità onde ciascuna cosa è sé stessa, e ragguagliando tutto l'universo, a un sol confine, dove non regga altra legge che il numero: che è appunto il più logico assunto del materialista.

Intanto, è veramente spiegabile con questo solo criterio quantitativo lo stesso cangiamento meccanico? Nella Filosofia universale, come nei Fluidi, movendo dal suo concetto di sostanza, il Corleo nega il non-essere di Democrito, lo spazio vuoto che rende possibile in se il movimento degli

atomi, e il loro accozzamento, donde il divenire naturale. Anzi, il vuoto, la mancanza dei contatti, renderebbe secondo lui impensabile il movimento, come cangiamento spontaneo delle singole sostanze. Queste non si possono pensare se non contigue tutte quante, e spostatili soltanto per effetto del variare dei loro rapporti. Lo spazio pertanto è lo stesso mondo, gli esseri che lo compongono, le loro relazioni di contatto, la loro mutua sostituibilitá: finito come il numero delle sostanze elementari, onde consta il mondo.

Orbene: posta quella che il Corleo dice prima e fondamentale legge cosmica, dell'aggregazione continua; se la massa mondiale è un insieme compatto di monadi materiali, prive di qualsiasi potenzialità, senza interstizio di sorta, come si supera quello stato di universale equilibrio e quiete, in cui pare che tutta la massa venga in questo modo a comporsi? La soluzione del Corleo è questa:

«Dovendo l'aggregazione esser continua e non potendo essere infinito il numero degli elementi, me per sé stesso dovendo essere numero determinato e preciso, per quanto pure sian limitale rispetto ad esso le nostre conoscenze, è ben certo che debba per necessità esservi una periferia, avente una figura od un'altra (non importa), ed in corrispondenza uno o più centri della periferia stessa». E il numero è determinato e preciso perché il tutto altrimenti, come s'è visto, non sarebbe maggiore delle parti in cui si può dividere. «Or non sono le stesse le condizioni delle singole sostanze che sono alla periferia, e di quelle che sono al centro, di quelle, che sono ad un terzo, a metà, a due terzi di raggio, e via via. Non è sola differenza dì distanza di ciascuno degli elementi rispetto al centro, ma ciascuno è in aggregazione attiva con tutti gli altri suoi vicini, e quindi ognuno porta su di sé la somma o la risultante maggiore o minore degli altri, in ragione che sia più vicino al centro, ossia da esso più lontano. Posto il contatto attivo universale dì tutti gli elementi mondiali, i loro raggi, convergendo verso il centro, si assommano, si addensano necessariamente, come al contrario sono meno numerosi e meno densi alla periferia. Onde è ben minore la somma dei
contatti attivi che porta su di sé un elemento, il quale si trova alla periferia, di quella che porta su di sé un altro simile elemento, il quale sia a metà di raggio, presso al centro, o al centro stesso»9.

Non discuto la solidità di tutta questa rappresentazione, che è una ipotesi come tutte le altre non difficili alla fantasia mitica dei naturalístì, condannati, eterni Sosifi, a costruirne e ricostruirne di continuo. Incontestabile mi pare che qui il Corleo non tiene fede egli stesso al decantato principio d'identità (al quale già, per sé solo non c'è chi possa tener fede, e intanto pensare). Egli finora ci aveva parlato di sostanze, che sono unità e fan numero: ossia di quantità equivalenti. «Ogni unità elementare», egli diceva, «è identica costantemente a sé stessa e vale quanto un'altra». E questa era è la base della matematicità dell’universo. Inoltre, questa quantità doveva essere, per essere quantità assoluta, la risoluzione d’ogni qualità. Che altrimenti la scienza non sarebbe stata più il calcolo delle proporzioni quantitative, ma anche la ricerca delle qualità proprie delle varie sostanze, o, per lo meno, questa e quello. Qui invece, per mover le acque di quell'eterna bonaccia in cui gli si rappresentava all’immaginazione l'oceano delle sue sostanze elementari, egli comincia a introdurre in ciascuna di esse qualche cosa che ne distrugge la identità primitiva, sovverte la concezione meramente quantitativa del loro molteplice, e intacca quindi profondamente, anzi distrugge la matematicítà della Filosofia Universale. Infatti, ciascuna delle sostanze della massa, in cui solo è possibile che essa venga concepita, è diversa dalle altre; è diversa bensì, per la posizione, che non è pel Corleo un carattere interno della sostanza; ma non è interno perché il Corleo crede di avere staccato quello che non ha punto staccato. Giacché se la sostanza non si può pensare se non come parte di un tutto, avente una periferia, e quindi o come più vicino al centro, o come più vicino alla periferia, può essere estrinseca alla sostanza una determinata posizione, ma non una posizione. E vedemmo già nei Fluidi imponderabili come, a differenza dell'Herbart, Il Corleo non disgiunga dal concetto dei suoi reali la loro mutua correlatività. E se le sostanze sono diverse peri loro rapporti di posizione, ognun vede che non è vero che il cangiamento, a cominciare dal moto spaziale, sia un rapporto di posizione proveniente dall’aggregazione delle monadi, se non a patto di dire insieme che le monadi nel loro essere determinato provengono dai rapporti di posizione. Che è come dire che l'essere non è l’identico, l’essere non è la monade elementare, ma l’essere è il cangiamento, in cui le monadi non si possono distinguere l’una dall'altra. O altrimenti: le monadi non si sommano, ma si organizzano coi loro caratteri differenziali; e il mondo non si divide, perché dividendosi muore, come ogni cosa che è viva per un principio che l'unifica inscindibilmente.